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Animale razionale, animale linguistico, animale politico, scimmia vestita, scimmia nuda, scimmia progredita, scimmia che parla, scimmia che si parla. Sembra che Homo sapiens non riesca a definirsi, nonostante ogni sforzo naturalistico, se non tagliando in due il proprio essere. Uno svelto colpo di bisturi ed ecco: da un lato il corpo, la bestia, l’animale; dall'altro il raziocinio, l’intelletto, il linguaggio verbale. Un dualismo di nobile lignaggio, non c’è dubbio, ma irrimediabilmente decaduto. Marco Mazzeo tenta qui, in questo che si avrebbe tutto il diritto di chiamare un “lavoro giovanile”, di proporre una visione del linguaggio assai più materica e corporea. E attenzione: niente affatto riduttiva. 

 

Critica del cognitivismo

 

Il primo obiettivo polemico del volume sono le scienze cognitive, e la prima parte del libro è occupata da una breve ed efficacie ricognizione storico-teorica del cognitivismo. Lo studio dei sapiens come macchine computazionali (secondo l’analogia cervello-computer) ha comportato una anchilosi teorica, e la concentrazione su di un solo organo del nostro corpo, ovvero il cervello. Non sono mancati tentativi di allargare la ricerca cognitivista, come testimonia l’approccio ecologico di Gibson e Neisser, ma Mazzeo mostra come le nuove sintesi oggi proposte siano caratterizzate da un nuovo conservatorismo riduttivo. La lente puntata in maniera esclusiva sulla vita interna della mente opera infatti una doppia epurazione: del contesto ambientale, storico, in cui l’uomo si situa; del corpo materiale che quest’uomo è. Un gioco, si potrebbe dire, piuttosto “cartesiano”, che fa fuori la critica del linguaggio privato di Wittgenstein e gli studi sulla percezione di Merleau-Ponty in un colpo solo. Mazzeo ha ben ragione di ammonire: «[…] è il nostro corpo, non semplicemente il cervello, a congiungere prima e seconda natura» (p. 57).

 

Un corpo sprovveduto

 

Ma cos’è un corpo di sapiens? Il seguito del libro si può dire sia una lunga e articolata risposta a questa domanda centrale. Il punto di partenza da privilegiare è, ancora una volta, la costellazione teorica elaborata dall’antropologia filosofica, soprattutto il lavoro di Gehlen. Il nostro è un corpo spiccatamente sprovveduto, che nasce privo di un ambiente suo proprio (Gehlen [1940] 2010;Uexküll [1934] 2013); che non è specializzato in vista di precisi compiti vitali, e che proprio per questo vive in una generica disposizione all’agire. Basta osservare le nostre mani: buone per una indeterminata quantità di azioni e tecniche, capaci di esplorazione e manipolazione. Racchiudono in sé ciò che l’animale umano ha di più peculiare, ovvero una indefinita capacità di azione non specializzata (cioè non in stretta simbiosi con nessun ambiente stabilito) e l'intrinseca riflessività della nostra percezione aptico-manuale (toccare, manipolare, tastare) e del tatto in generale. Mentre tocco, infatti, mi percepisco toccato.

 

Nascita precoce e crescita lenta

 

Avvalendosi delle ricerche di Louis Bolk e Adolf Portmann (pp. 98-113), Mazzeo chiarisce che questa situazione viene consentita da una nascita davvero precoce, accoppiata a uno sviluppo fisico assai lento e alla persistenza di tratti fetali nell’individuo adulto (come la presenza di suture craniali o l’assenza di peli sul corpo; cfr. Bolk [1926] 2006; Portmann 1989). Siamo un essere neotenico, un «[…] primate lento dalla nascita precoce […]» (p. 108). È come se la nostra gestazione si compisse in buona parte fuori dall’utero, in un ambiente storico-sociale che ci nutre di parole e azioni codificate. È qui, nella nostra aperta esposizione al mondo, che si gioca la partita sulle analogie tra tatto e linguaggio. «Il tatto è il secondo senso: non perché rappresenta l’inadeguato vicario della vista, ma perché è il senso in cui si radica la seconda natura» (p. 97).

 

Tatto e vista: toccare a distanza e vedere con le mani

 

Per poter portare un serio affondo in questa direzione, è necessario proteggersi i fianchi scalzando il tatto da quella concezione che lo vuole «vicario» nei confronti della vista. Mazzeo invita anzitutto a considerare quanto segue: «[…] il tatto è condizione di conoscenza del mondo, rappresenta una necessità per l’esistenza: esistono uomini senza vista ma non esistono uomini senza corpo» (p. 70). Punto di sicuro effetto, questo. Perché però non rimanga solo una svelta e agile formuletta, è necessario darle una consistenza teorica maggiore. È questo che il capitolo III tenta di fare, riuscendovi, direi, piuttosto bene. Avvalendosi soprattutto degli studi di Geza Révész e di James J. Gibson sulla percezione tattile l’autore arriva ad affermare una sostanziale autonomia di questa da quella visiva (p. 143). Il valore della manualità per la nostra forma di vita, già riconosciuto chiaramente da Arnold Gehlen, trova qui un chiaro ribadimento: nella nostra percezione sinestetica è la vista a farsi carico di indici tattili nella sua esperienza dello spazio, non viceversa (p. 97). Diciamo, per capirsi, che la sensazione di toccare con la vista (e di sentirsi, quindi, toccati dallo sguardo altrui) è molto più comune di quella di vedere con le mani (propria, in effetti, di chi la vista non ce l'ha). Come se vedere fosse toccare a distanza.

 

Contro il riduzionismo linguistico: le analogie fra tatto e linguaggio

 

Ed eccoci alla tornata finale e all'ultimo obiettivo polemico del libro: il riduzionismo linguistico (cfr. Cimatti 2000), ovvero l’identificazione dell’umano con la sola facoltà di linguaggio (e qui di nuovo il corpo scompare). Mazzeo sfodera un ottimo argomento: non è possibile, dal punto di vista evolutivo, che prima ci si sia messi a parlare e poi, ad esempio, si sia diventati bipedi (p. 198). Se si vuole tracciare un discrimine tra Homo sapiens e le altre specie, questo deve trovare argomenti già nella nostra costituzione corporea. Questa è infatti condizione per l'emersione del linguaggio verbale non solo perché siamo dotati di un apparato fonatorio, ma perché la nostra percezione tattile serba già in sé caratteristiche proprie del linguaggio stesso. Prima di procedere, sia chiaro: si sta qui parlando di "condizioni di possibilità" per poter parlare, ma ciò non significa che, stando queste condizioni, si debba parlare (p. 197). Ciò precisato, ecco qui riassunte le analogie tra tatto e linguaggio:

 

  1. intrinseca performatività. Col tatto manipoliamo il mondo, con le parole facciamo cose (cfr. Austin 1962);
  2. liminarità. Attraverso il tatto e il linguaggio esperiamo il senso del limite (del corpo, del mondo, del nostro corpo nel mondo);
  3. riflessività e ambivalenza. Attraverso il tatto non solo tocco ma mi percepisco toccato, scindo me stesso come quando, monologando ad alta voce, parlo a un me che non è propriamente l’io che parla. Il corpo umano «[…] è un corpo più riflessivo degli altri perché è in grado di autoavvertirsi, perché è capace di prendere atto di sé grazie alla plasticità delle sue membra, in particolare del tatto aptico-manuale» (p. 231).

 

Padroneggiamento della contingenza: toccare e toccarsi

 

Abbiamo bisogno, da esseri mancanti quali siamo, di costruirci un mondo toccando e toccandoci, parlando e parlandoci. «Proprio perché non è sempre padrone di sé, l’animale umano ha necessità di parlarsi per prendere contatto con il proprio io attraverso una logica […] che scandisce la struttura del movimento: del corpo, delle parole, del corpo delle nostre parole» (p. 238). Mazzeo mostra in questo libro una capacità di tessitura argomentativa davvero notevole. Non ultima, un'audacia quanto mai rara, che lascia davvero un buon sapore in bocca a chi è abituato ai docili (ma indigesti) bocconi accademici. Ha scritto un volume pulito, preciso, rigoroso, spesso brillante. Un lavoro importante. È davvero un peccato che non sia tradotto in altre lingue, e che perciò sia probabilmente assai poco conosciuto fuori dei confini nazionali.

 

Marco Valisano

 

Mazzeo, Marco (2003) Tatto e linguaggio. Il corpo delle parole. Roma: Editori Riuniti, pp. 289.

 

Bibliografia, riferimenti e suggerimenti di lettura

Pubblicato Saturday 22 October 2016

Modificato Tuesday 28 January 2020


Marco Valisano

Marco Valisano

Nato nel 1987, laureato in storia nel 2013 e in scienze delle religioni nel 2017, adesso sono dottorando dell'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia e sto portando avanti un progetto in antropologia filosofica e teoria delle istituzioni.




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