Melanconia e rivoluzione. Antropologia di una passione perduta
Un libro alla ricerca dei reperti semantici della melanconia; reperti eloquenti, di cui si può riconoscere la sagoma tutt'altro che incerta tra le pieghe delle stratificazioni storiche. Marco Mazzeo si cimenta qui, con la consueta e acuta spregiudicatezza, in una indagine archeologica di cui ci consegna ben più che un'ipotesi. Il melanconico è per noi l'immobile e muto, prosaicamente è colui che non sa che pesci prendere, né da che parte rifarsi. Insomma: un inattivo. Non è sempre stato così.
La melanconia in Freud
L'autore parte da quella che pare essere una pesante eredità: quella freudiana. In Lutto e melanconia Freud infatti designa la passione melanconica con toni, appunto, luttuosi, come perdita di ciò che ci era caro, che era un tempo e che ora non è più. Il paradigma freudiano della perdita eserciterebbe la sua influenza fin negli scritti di Judith Butler e Paul Gilroy, entrambi prendendo in considerazione, tra le potenzialità della passione melanconica, null'altro che quella di creare una situazione di stallo (pp. 17-21). Questi autori paiono però essere più strettamente freudiani dello stesso Freud, il quale aveva comunque visto il chiaro nesso (che lascia però inindagato) che lega la melanconia non al lutto, bensì alla mania.
La melanconia in Aristotele
L'occasione è buona per tornare all'analisi della melanconia che si dipana in un testo aristotelico, i Problemi. Per Aristotele il melanconico non è un individuo in lutto immobile, impedito nei suoi movimenti. Tutt'altro. Egli è colui che, essendo fondamentalmente un disadatto che sempre è «diverso da se stesso» (p. 24), vive nella dimensione propria dell'agire (pp. 26-27). La melanconia è per Aristotele legata perciò con la mania, con l'azione impensata che diviene pensabile solo dopo esser stata compiuta. Da qua la stretta parentela, dai Problemi più volte scandita, tra la bile nera e un'altra sostanza che libera l'azione: il vino. Insomma, mentre il melanconico di Lutto e melanconia è un individuo solo e inibito nel suo agire, quello di Aristotele è il soggetto che per eccellenza è capace di azione. Mazzeo riparte da qui, da questo nocciolo centrale, e si volge alla disamina di alcune tesi psicanalitiche per chiarirci quanto c'è stato di mancato, quanto ci si sia avvicinati a riprendere e ampliare l'antica argomentazione aristotelica (pp. 43-61). L'ordine di problemi posto dal filosofo greco è rimasto però un malcerto avvistamento, e tutt'altro che un approdo.
Contrazione melanconica e dilatazione maniacale
Ma non vi è solo Freud con la sua eredità a ostacolare la ricerca, bensì anche il modo in cui il nostro concetto della passione melanconica si è sviluppato in intreccio con quello di un'altra passione, tutt'affatto diversa: l'accidia, oggi ormai intesa come torpore vizioso e per nulla irrequieto (pp. 62-67). Mazzeo radicalizza invece, e porta a fondo, l'intuizione di Freud sul ruolo della mania nella costituzione dell'Io: ciò che caratterizza l'espansione o il ridimensionamento dei confini della nostra forma di vita è il movimento di contrazione e dilatazione che si verifica tra melanconia e mania:
[...] nel caso degli umani questa espansione costituisce sempre un problema. Rischia di estendersi troppo, come nel passo maniacale più lungo della gamba, o di chiudersi fino a occludere ogni prospettiva di vita, come nel caso depressivo e suicidario del melanconico triste. Il carattere demoniaco del salto maniacale coglie questo elemento di sospensione tipico della costruzione dei dintorni umani (pp. 66-67).
Contrazione che occlude ogni strada, dilatazione "demoniaca" che fa fare il passo più lungo della gamba. E che però ci smuove.
Melanconia e azione innovativa
Pare fin qui sia stato fatto il grosso, ma inaspettata arriva la stoccata: quella melanconica è una deliberazione di una regola interrotta dalla sua stessa applicazione, un'attività in cui non ha ancora senso distinguere tra mezzi e fini (p. 93). Ma un'attività di questo tipo è ipso facto un'azione innovativa, finora impensata perché mai regolamentata. Mazzeo si riallaccia qui, in maniera decisa, a quel concetto di applicazione pura a cui Paolo Virno è disposto a concedere cittadinanza pur di interrompere il regresso all'inifito che si innesca laddove si cerchi di rintracciare la regola che governa l'applicazione di una regola; questa super-regola avrebbe infatti bisogno di una ulteriore e superiore regola che ne governi l'applicazione, ma anche questa suprema regola avrebbe bisogno di una regola... e così via, all'infinito (Virno 2005, pp. 52-53). L'azione del melanconico esemplifica a meraviglia lo iato tra regola e applicazione, o, se si vuole, la loro perfetta coincidenza in una situazione data. Melanconia, dunque, come niente di meno che tonalità emotiva dell'azione innovativa. E scusate se è poco.
L'iconografia del maniaco: Aiace Telamonio
Nella parte finale del libro vale la pena segnalare, oltre a un rinnovato confronto dell'autore con Wittgenstein e quel prodotto linguistico che è la contraddizione (generatrice di ambivalenza) in quanto limite del linguaggio (p. 116), alcune pagine di azzardata disamina iconografica della figura melanconica per eccellenza: Aiace Telamonio. Suicida in un impeto di pazzia, di mania, lo vediamo nel corso dei secoli ripiegarsi sul momento precedente l'azione, mano sotto al mento in atteggiamento contemplativo. Una simile posizione, alla fine di questo libro lo sappiamo, si confà al melanconico, sì, ma dopo che ha compiuto l'azione alla quale, per l'appunto, segue il pensiero. E invece adesso Aiace, completamente privo di volizione, rimane inerte e muto, immobile (pp. 144-150). La scena scorre all'indietro, secolo dopo secolo, fino a rappresentare un Aiace imprigionato nell'inazione, preteso paradigma di ogni individuo melanconico.
Il fantasma della melanconia
È bella l'espressione che Isabella Mattazzi utilizza per designare questo lavoro di Mazzeo: è «la storia di un fantasma», ma un fantasma che continuamente ritorna, prorompe sempre di nuovo fuori dalla nostra prassi pubblica come il vero e sempiterno protagonista. Come recita la citazione di E.G. Wilson che campeggia all'apertura del primo capitolo di questo bel libro di Mazzeo: «Senza più melanconici, vivremmo in un mondo in cui tutti accetterebbero lo statu quo».
Mazzeo, Marco (2012) Melanconia e rivoluzione. Antropologia di una passione perduta. Ariccia (RM): Editori Internazionali Riuniti, pp. 160.
Bibliografia, riferimenti e suggerimenti di lettura
- Barbieri, Barbara (2012) Melanconia e rivoluzione - Marco Mazzeo. Recensione pubblicata su www.sherwood.it.
- Butler, Judith (2004) Precarious Life. The Powers of Mourning and Violence. New York: Verso.
- De Carolis, Massimo (2008) Il paradosso antropologico. Nicchie, micromondi e dissociazione psichica. Macerata: Quodlibet.
- Gilroy, Paul (2004) After Empire. Melancholia or convivial culture? Oxford: Routledge.
- Mattazzi, Isabella (2012) Melanconia e rivoluzione. Recensione pubblicata su «Alias» del 24 giugno.
- Mazzeo, Marco (2005) Del limite uno e bino. La proposizione 5.6 del Tractatus. In «Forme di vita», 4, pp. 199-210.
- (2009) Contraddizione e melanconia. Saggio sull'ambivalenza. Macerata: Quodlibet.
- Virno, Paolo (2005) Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento. Torino: Bollati Boringhieri.
Pubblicato Friday 21 October 2016
Modificato Sunday 5 January 2020