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Negli ultimi decenni del secolo scorso, la prospettiva “relativista” sul linguaggio, convenzionalmente chiamata ipotesi Sapir-Whorf, era caduta in discredito intellettuale e accademico: si tratta dell’idea secondo cui col variare delle lingue e delle culture muti anche il modo in cui le comunità umane organizzano l’esperienza. Oggi assistiamo, invece, a un rinnovato interesse per quel tipo di impostazione, tanto che Bollati Boringhieri ha deciso di ripubblicare questo volume di Benjamin L. Whorf quarant’anni dopo la sua uscita in Italia.

 

Un libro incompiuto

 

Morto precocemente, Whorf non fa in tempo a scrivere il libro, che pure aveva progettato, pensandolo come un manuale universitario. Il curatore del volume decide così di comporlo con scritti editi e inediti: studi sulla lingua dei nativi americani, soprattutto quella degli hopi, della cui analisi Whorf fu pioniere, ma anche saggi di linguistica generale e articoli più divulgativi in cui l’autore prova a illustrare i compiti della linguistica e il rapporto tra pensiero, linguaggio e comportamento.

 

Una tesi centrale: il principio di relatività linguistica

 

Malgrado l’eterogeneità del materiale che lo compone, il volume è intessuto attorno a un’idea centrale, che emerge anche nei saggi che si occupano di questioni specifiche: l’esperienza che l’essere umano fa del mondo è strutturata e pensata linguisticamente. Di conseguenza, la variazione delle lingue porta con sé un mutamento della concezione di realtà e dei comportamenti che in essa si realizzano. È il cosiddetto principio di relatività linguistica, che Whorf formula in questo modo: due uomini «non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati». In altre parole, il linguaggio produce una visione del mondo che muta al variare delle lingue (per un esempio relativo alle lingue segnate si veda Sacks 1989; sulla capacità umana di creare mondo attraverso prassi e linguaggio si vedano Wittgenstein [1969] 2014; de Martino [1948] 1998). 

 

Relatività linguistica di tempo, spazio e materia 

 

Questa differenza di Weltanschauung è tanto più evidente quanto più sono lontani gli idiomi che si mettono a confronto. Può addirittura sfuggire se si rimane nell’alveo delle lingue indoeuropee. Se però si comparano queste ultime con le lingue dei nativi americani, sostiene Whorf, le cose cambiano radicalmente. Whorf si concentra soprattutto sui concetti di tempo, spazio e materia. Per via della struttura soggetto-predicato delle lingue indoeuropee e della presenza dei tempi passato, presente e futuro, noi occidentali siamo inclini a concepire la realtà nei termini di cose e di azioni e relazioni tra di esse, che avvengono in uno spazio e in un tempo definiti. Sarebbe un errore pretendere che questa struttura sia universalmente valida. Fermo restando che la percezione sensibile dei corpi nello spazio «è data» per tutti «sostanzialmente nella stessa forma, qualunque sia la lingua» che parliamo, non dobbiamo ignorare che ci sono idiomi che organizzano quell’esperienza sensibile in modo radicalmente diverso dal nostro. La nozione di tempo, per esempio, è variabile: in hopi non si possono utilizzare i numeri cardinali in riferimento ai giorni, ma solo gli ordinali: si può dire ‘il terzo giorno’ ma non ‘tre giorni’. Il tempo è quindi sempre riferito alla prospettiva di un soggetto o in relazione a un evento e per gli hopi è inconcepibile l’idea di una temporalità astratta e vuota, fatta di unità discrete (giorni, mesi, anni) ripetute all’infinito.

 

La "verbazione"

 

Secondo Whorf è addirittura la nozione di verbo a venire fortemente indebolita se si tiene presente che in alcune lingue, come lo yana, qualunque parola può essere resa verbo «tramite l’applicazione di certi suffissi distintivi». Sarebbe quindi più corretto parlare di «verbazione». In questa goccia di grammatica si nasconde una grande differenza di prospettiva rispetto a noi europei: emerge infatti una visione che, piuttosto che le cose, privilegia gli eventi, ognuno dei quali è esito di un processo.

 

Un linguaggio "puro" dietro al relativismo linguistico di Whorf

 

Se il relativismo linguistico è il perno intorno a cui ruota tutto il volume, non si può fare a meno di notare che è solo una faccia della medaglia. Man mano che ci si avvicina alle pagine finali emerge infatti un’idea contraria al relativismo. Secondo Whorf la linguistica, pur non essendo una scienza quantitativa, sarebbe tuttavia esatta, proprio come la matematica e la fisica, e attraverso di essa si potrebbero scoprire leggi e strutture generalissime che regolano il pensiero e il linguaggio, come per esempio alcune formule, ideate dall’autore, che descrivono le regole generali per la formazione delle parole, applicabili a tutti gli idiomi. Se confrontate con queste forme generali del pensiero, le lingue storiche altro non sarebbero che manifestazioni spaziotemporali di una struttura metafisica più profonda: oltre il «velo di Maya» (l’espressione è di Whorf) costituito dalla mente individuale dei parlanti, ci sarebbe una mente impersonale che si esprime in un linguaggio puro, di cui gli idiomi storici non sono altro che pallide imitazioni.

 

Dietro le lingue? Critica al "linguaggio puro" di Whorf

 

L’intento è nobile: al di là delle differenze delle lingue e delle culture, tutti gli esseri umani sono accomunati dall’appartenenza a una medesima sostanza, che se debitamente illuminata può portare a una «fratellanza» universale e a un’umanità pacificata. C’è quindi una significativa ricaduta politica, che però si paga a caro prezzo dal punto di vista teorico. Non si vede infatti la necessità di postulare una struttura di pensiero ultraterrena al di là delle lingue, che possono viceversa essere concepite – materialisticamente – come un mutevole prodotto della nostra biologia. È per questo che le pagine finali del volume, in cui si allude all’eternità come chiave di volta per la soluzione del problema storico della convivenza tra gli uomini, sembrano essere l’esito paradossale di un libro il cui pregio principale è proprio quello di sottolineare la matrice storica dell’esperienza umana.

 

Adriano Bertollini

 

Lee Whor, Benjamin [1956] (2018) Linguaggio, pensiero e realtà. Trad. di Francesco Ciafaloni. Torino: Bollati Boringhieri, pp. 270.

 

Bibliografia, riferimenti e suggerimenti di lettura

Pubblicato Friday 13 July 2018

Modificato Sunday 29 December 2019


Adriano Bertollini

Adriano Bertollini è dottorando presso l'Università  della Calabria dove sta portando avanti una ricerca sull'antropologia filosofica dell'amicizia. Tra i suoi interessi principali il ciclismo, la Roma, e, nel tempo che resta, la filosofia.




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