Il cosiddetto male. Per una storia naturale dell'aggressione
Homo sapiens è una specie particolarmente aggressiva nei confronti dei propri simili. Nonostante alcuni tentativi di dimostrare l'opposto (Tomasello [2009] 2010), tanto la storia dell'uomo quanto l'epoca a noi contemporanea ci parlano chiaramente di una spiccata tendenza alla violenza. “Non uccidere”, dicono le tavole della legge; e lo dicono perché, a quanto pare, di per sé l'uomo tende a farlo. In questo libro, oramai un classico dell'etologia del Novecento, Konrad Lorenz ci parla del fenomeno dell'aggressività intraspecifica in generale, ma con l'obiettivo di comprendere come possiamo imparare, noi, a gestire la nostra.
Uno straordinario successo evolutivo
L'aggressività intraspecifica è un fenomeno diffusissimo nel mondo dei viventi, ha avuto cioè uno straordinario successo evolutivo (p. 37). In effetti essa svolge funzioni assai rilevanti: consente la distribuzione equa degli individui di una specie su di uno stesso territorio (p. 46), crea ranghi e gerarchie utili all'organizzazione del gruppo e a loro volta limitanti l'aggressività stessa (non si attacca un superiore; pp. 60-61), risulta a volte essenziale per funzioni di difesa (di sé stessi, dei propri cuccioli; p. 140).
Una pulsione generalmente non mortale
C'è però un compito che l'aggressività intraspecifica non sembra dover assolvere: uccidere davvero il proprio conspecifico (pp. 63-65). Nell'ambiente naturale (in cattività è un altro discorso, soprattutto per le specie territoriali come i pesci corallini) gli animali non umani normalmente non si uccidono tra di loro, perché scattano precisi e potenti freni inibitori. Quando, ad esempio, due lupi iniziano un combattimento, perché la scaramuccia venga conclusa senza danni è sufficiente che colui che si riconosce sconfitto mostri il collo al vincitore. Questi, se attaccasse, gli reciderebbe la giugulare. Ma alla vista dell'atto di sottomissione immediatamente si ferma, e porta a casa la sudata vittoria con i relativi riconoscimenti gerarchici all'interno del branco. Gli animali non umani dispiegano tutta una serie di strategie che appaiono addirittura ritualizzate per inibire un attacco che sarebbe mortale: dalle “cerimonie” di sottomissione del lupo e del cane, passando per l'atto di mimare l'attacco dell'anatra femmina (pp. 79-81), fino al fenomeno del ri-direzionamento dell'agressività (tentato di attaccare femmina e uova, il maschio di ciclide, pesce d'acqua dolce, attacca il primo conspecifico che gli capita a tiro, e in mancanza di questo la prima cosa che gli somigli; p. 209). Un po' come quando ci capita di prendere a pugni il tavolo anziché l'interlocutore molesto.
L'aggressività umana
Sappiamo bene che per gli uomini può non funzionare così, che una rissa per gelosia può tramutarsi in omicidio. È proprio la strana piega della nostra aggressività intraspecifica, associata alla naturale spontaneità della pulsione, che porta Lorenz a interessarsene a fondo. Data la sua naturalità, infatti, essa non può essere espulsa, ma solo gestita: «Proprio il sapere che la pulsione aggressiva è un vero istinto […] ce ne lascia riconoscere tutta la pericolosità: è la spontaneità dell'istinto a renderlo così pericoloso» (pp. 69-70). Gli istinti, infatti, devono espletarsi. In assenza prolungata dello stimolo che dovrebbe innescare la reazione istintiva, la soglia oltre la quale l'organismo reagisce comunque si abbassa radicalmente (la tortora si mette a corteggiare l'unica cosa che crei un contrasto visivo nella gabbia, ovvero l'angolo ; pp. 71-72), al limite può mancare addirittura qualsiasi stimolazione (lo storno che si mette a cacciare insetti inesistenti; pp. 72-73). Dunque l'aggressività si deve sfogare, e meno sarà stimolata più dovrà farlo in maniere inconsulte e imprevedibili. Inclusa la potenzialmente omicida aggressività dei sapiens. L'etologo austriaco cerca dunque dapprima di capire la nostra pulsione aggressiva nel suo senso specie-specifico, dopodiché prova ad avanzare dei possibili modi in cui potremmo gestirla.
Aggressività e individualizzazione
Una tesi molto interessante del libro di Lorenz è che l'aggressività intraspecifica tenda ad essere più intensa laddove gli individui di una specie si riconoscano in quanto tali. O meglio: è l'aggressività intraspecifica di tipo individuale (ce l'ho proprio con lui, non con un altro) che, gestita e ri-direzionata, aprirebbe alla considerazione dell'altro in quanto uno, dunque all'intera gamma dei rapporti interindividuali (dalla scelta del compagno presso i ciclidi all'antipatia di un cane verso un altro). E, va quasi da sé, il sapiens è una specie i cui esemplari sono fortemente individualizzati (p. X). Prima di procedere è opportuno però dire qualcosa di più rispetto al libro e sgomberare il campo da un equivoco: la presunta similarità della nostra aggressività intraspecifica con quella dei ratti.
Excursus: per non confondersi
I ratti vivono in tribù prive di gerarchia, di rango, e pressoché prive di qualsivoglia grado di aggressività interna. Ma se un membro di un'altra tribù finisce per errore in mezzo a loro essi, sentendo un odore estraneo, letteralmente lo scannano. La tentazione è grossa: anche i sapiens, si dirà, sono aggressivi verso l'estraneo; anche i sapiens, si dirà, lo possono uccidere solo perché tale. Ma si tratta di un errore di prospettiva. Anzitutto la nostra aggressività, contrariamente a quella dei ratti, si sviluppa anche all'interno del gruppo di afferenza (a volte a maggior ragione). In secondo luogo, l'estraneità può essere una ragione scatenante, ma non è né necessaria né sufficiente per muoversi a fare violenza. Per noi l'estraneità non è per ciò stesso inimicizia (Plessner [1931] 2006). Probabilmente, l'analogia coi ratti è una illusione dovuta al nostro possedere linguaggio verbale, che ci consente di considerare gli insiemi (ad esempio “gli immigrati”) come singolo oggetto di rappresentazione. Ma non è questa la sede per affrontare il tema. Basti dunque questo piccolo excursus che spero aiuti a evitare questo ostacolo presente nel testo, visto che l'autore non lo approfondisce.
L'aggressività permea il comportamento in generale
Siamo dunque esseri estremamente individualizzati perché estremamente aggressivi. E l'aggressività, che già in altri animali non è un modulo istintuale preciso e infallibile (negli atti sessuali delle oche spesso si rischia di passare dalla pulsione sessuale a quella aggressiva), in noi lavora in maniera ancora più pervasiva all'interno delle nostre più generiche pulsioni (pp. 59-60; cfr. Gehlen [1940] 2010, [1956] 2016).
Disfunzioni del “grande parlamento degli istinti”
Come se non bastasse, Lorenz mostra come i moduli istintuali possano non lavorare di concerto al miglioramento della condizione della specie, e come si diano casi in cui ogni modulo rischia di lavorare per sé stesso. Come nel caso dell'argo, un uccello, il cui maschio può godere di una priorità nel corteggiamento (istinto sessuale) solo a patto che le sue ali siano più grandi di quelle dei concorrenti. Questo ha portato questo povero animale ad avere ali talmente grandi da rischiare di non poter volare, e quindi fuggire dai predatori (istinto di fuga; p. 56). In quello che Lorenz chiama “il grande parlamento degli istinti” può succedere di non trovarsi d'accordo, dando così vita a consistenti disfunzioni. In termini tecnici, qui l'evoluzione si sviluppa senza considerazione per l'ambiente extra-specifico.
Sviluppo disfunzionale dell'aggressività umana
Ed ecco, dopo aver delineato la struttura individuale dell'aggressività umana, un altro suo elemento caratteristico: essa si sarebbe sviluppata senza riguardo all'ambiente extra-specifico. La tesi di Lorenz è interessante:
Il ragionamento astratto [e io direi dunque il linguaggio verbale, NdR] procurò all'uomo il dominio del suo ambiente extra-specifico dando così via libera alla selezione intraspecifica i cui effetti nocivi ci sono già noti (pp. 55-56), e a cui va probabilmente addebitata l'eccessiva pulsione aggressiva di cui oggi soffriamo (p. 280).
Aggressività e tecnologia
In ultimo, un'altra componente che Lorenz tira in ballo per delineare la nostra condizione di animali estremamente aggressivi riguarda il rapporto tra aggressività e tecnica. Ogni specie aggressiva possiede dei precisi inibitori, che paiono essere tarati esattamente sulla capacità di ledere (il lupo si ferma subito perché i suoi denti ucciderebbero in un attimo, mentre un ciclide sconfitto deve fuggire più a lungo prima di essere lasciato in pace). Nel caso del sapiens, dice Lorenz, i nostri già scarsi freni inibitori diventano assai meno funzionali se anche solo si è in possesso di un bastone, ancor più inefficaci se si ha in mano una pistola, praticamente inesistenti se si pilota un drone a distanza. La tesi ha un suo valore, e va tenuta in considerazione. Ma è forse necessario spostare l'accento da un'altra parte: noi ci scanniamo anche a mani nude. La tecnica, di per sé, non è una spiegazione sufficiente (forse neanche necessaria).
Ritualizzazione e ri-direzionamento
Più giustificata risulta invece l'attenzione che Lorenz pone sul concetto di ri-direzionamento quando prova a pensare a dei possibili modi di gestione della nostra straordinaria aggressività. E in effetti, come ammette lui stesso, è proprio il fenomeno del ri-direzionamento così come l'aveva osservato nei ciclidi ad averlo «indotto a scrivere questo libro» (p. 209). Il ri-direzionamento, oltre ad essere una strategia di gestione dell'aggressività assai diffusa, è in stretta correlazione, come abbiamo visto, con la ritualizzazione dell'aggressione. La tesi di Lorenz, per quanto riguarda la ritualizzazione nel mondo animale, suona così: ritualizzare dei comportamenti (in genere riguardanti il sesso e l'aggressione) è la modalità di formazione di istinti durevoli. Può essere, questa, la strategia principe di gestione dell'aggressività anche per noi sapiens?
Rito, istituzione, tradizione
Lorenz risponde di sì. Nella società contemporanea, dove le occasioni di sfogo dell'aggressività sono ridottissime (e rischiamo perciò di esplodere di botto per un nonnulla anziché tirare fuori tutto un po' alla volta), rito e ri-direzionamento gli appaiono come utili valvole di sicurezza (p. 308). Ma qua cala, il nostro autore, la mannaia (per lui probabilmente una manna) della gerarchia. Il rito animale, si è detto, può forse dar luogo a istinti durevoli. Ma nel caso del sapiens ovviamente no. I nostri riti vengono istituiti e trasmessi storicamente, sono costruzioni sociali che non si sedimentano come istinti nuovi nel processo filogenetico. E allora a quale tipo di ente durevole fa riferimento Lorenz quando cerca di capire come stabilizzare il nostro comportamento? Ovviamente alle istituzioni, alla morale, alla tradizione. Leggiamo:
La vita propria di questa cultura, la creazione di una comunità superindividuale che sopravviva all'individuo, in una parola tutto quello che rappresenta vera umanità è basato su questa autonomia del rito che lo eleva a motivo indipendente di azioni umane (p. 98).
E, più avanti, calca di nuovo la mano:
Alla filogenesi che procede quasi impercettibilmente si sovrappone d'ora in poi la storia, sul tesoro della sostanza ereditaria formatosi filogeneticamente si innalza l'altra costruzione della cultura acquisita storicamente e tramandata tradizionalmente (p. 287).
Dapprima fa riferimento non tanto al farsi e costriuirsi del rito come strategia di contenimento, quanto al suo già essere stabile; dopodiché, e conseguentemente, lancia il monito della morale e del valore della tradizione. Non scostatevi dal tracciato, comportatevi come si deve, e tutto andrà per il meglio. Devo dire che queste conclusioni assomigliano molto alla pretesa di espellere l'aggressività, piuttosto che a quella di gestirla.
Scrivere le regole dei giochi, creare riti, fare istituzioni
Lorenz fa appello anche a un'altra valvola di sfogo dell'aggressività, ovvero il gioco (lo sport; p. 308). Questo elemento può forse tornarci utile in sede di critica della soluzione adottata dall'etologo, e che si risolve in una esortazione: "Rispettate le leggi". Giocare significa sempre, in una certa misura, discutere le regole del gioco. Diciamo pure che significa sapere che si sta giocando, e che dunque le possibilità di vita felice non si esauriscono all'interno della cornice tracciata dalle regole secondo cui si gioca (De Carolis 2004). Anziché pretendere (illusoriamente) di negare l'aggressività attraverso imperativi morali, potrebbe essere forse più funzionale gestirla aprendo alla rinegoziazione le regole, le leggi, le istituzioni, i riti. Farli, più che ossequiarli. Questi istituti infatti, se già da sempre formati prima di noi (Lorenz direbbe: resisi autonomi), rischiano di reprimere l'aggressività in maniera eccessivamente rigida, facendo poi la fine di un coperchio chiuso su di una pentola a pressione: prima o poi salta. Mi pare inoltre plausibile (ecco un punto problematico e decisivo) che la ridiscussione delle regole possa funzionare già di per sé stessa da sfogo di porzioni di aggressività. Giocare con gli éndoxa, e non darli per buoni senza beneficio di inventario (cfr. Virno 2005). Chissà che non possa essere una buona strategia.
Lorenz, Konrad [1963] (1980) Il cosiddetto male. Per una storia naturale dell'aggressione. Milano: Il Saggiatore, pp. 328.
Bibliografi, riferimenti e suggerimenti di lettura
- Carthy, J. D.; Ebling, F. J. (a cura di) [1964] (1973) Storia naturale dell'aggressività. Atti del simposio tenuto al British Museum (Natural History), a Londra, dal 21 al 22 ottobre 1963. Milano: Feltrinelli.
- Cimatti, Felice (2000) La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano. Torino: Bollati Boringhieri.
- (2006) La geometria del sacro. Crisi della presenza, performativo e rituale. In «Forme di vita», 5, pp. 31-57.
- De Carolis, Massimo (2004) La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica. Torino: Bollati Boringhieri.
- (2006) La fabbrica dell'esemplarità. Per uno studio naturalistico del rituale. In «Forme di vita», 5, pp. 15-30.
- Eibl-Eibesfeldt, Irenäus [1980] (1996) Amore e odio. Per una storia naturale dei comportamenti elementari. Milano: Adelphi.
- Gehlen, Arnold [1940] (2010) L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo. A cura di Vallori Rasini. Milano; Udine: Mimesis.
- [1956] (2016) L'uomo delle origini e la tarda cultura. Tesi e risultati filosofici. A cura di Vallori Rasini. Milano; Udine: Mimesis.
- Houxley, Julian Sorell (edited by) (1966) A Discussion on Ritualization of Behaviour in Animals and Men. Monographic number of «Philosophical Transactions of the Royal Society of London. Series B. Biological Sciences», n. 772, vol. 251.
- Mazzeo, Marco (2017) Antropologia dell'istinto alla cooperazione. In «Alias» del 22 gennaio, p. 4.
- Plessner, Helmuth [1931] (2006) Potere e natura umana. Per un'antropologia della visione storica del mondo. A cura di Bruno Accarino. Roma: Manifestolibri.
- (2010) Antropologia filosofica. A cura di Oreste Tolone. Brescia: Morcelliana.
- Tomasello, Michael [2009] (2010) Altruisti nati. Perché cooperiamo fin da piccoli. Torino: Bollati Boringhieri.
- Virno, Paolo (2005) Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento. Torino: Bollati Boringhieri.
- (2010) Il cosiddetto "male" e la critica dello stato. In Id., E così via, all'infinito. Logica e antropologia. Torino: Bollati Boringhieri, pp. 149-194.
Pubblicato Tuesday 14 January 2020
Modificato Saturday 25 January 2020