Ernesto de Martino - "Introduzione" di "Naturalismo e storicismo nell'etnologia"
Pubblichiamo qui l'introduzione di Ernesto de Martino al suo primo volume, Naturalismo e storicismo nell'etnologia, uscito nel 1941. Oltre che indicativo tanto del metodo quanto del punto di avvio del percorso demartiniano, ci pare un testo esemplare per almeno tre ragioni:
- de Martino denuncia qui l'inappropriatezza degli steccati disciplinari al fine della risoluzione di scottanti tematiche storiche e filosofiche;
- mostra subito quali risultati si possono raggiungere attraverso uno sforzo più speculativo, teso a chiarire tematiche antropologiche e storico-religiose;
- in ultimo, e non meno importante, in queste righe l'autore chiarisce assai bene il motivo per il quale lavora, qual è il compito che sente suo e che ne fa, ai nostri occhi, un intellettuale organico.
Il brano che segue è tratto da de Martino, Ernesto [1941] (1997) Naturalismo e storicismo nell'etnologia. Introduzione e cura di Stefano De Matteis. Lecce: Argo, pp. 53-61. Paragrafazioni, titolazione e grassetti sono a cura nostra. In fondo alla pagina abbiamo inserito dei suggerimenti di lettura.
Contro l'esorbitanza naturalistica: per il carattere storico dell'etnologia
La ricerca etnologica è condotta, di solito, naturalisticamente, cioè mercé una logica sostanzialmente naturalistica: la considerazione storica e la corrispondente logica storiografica che la governa fanno qui difetto. La presente raccolta di saggi intende rivendicare il carattere storico della etnologia, e limitare il procedimento naturalistico all'eurisi filologica, o al pratico ordinamento dei fatti in attesa di una storiografia che sarà. Di qui il titolo sotto cui va la raccolta. Si tratta dunque di una assegnazione di confini o di limiti, e anche di una estimazione delle regioni così circoscritte: fuor di metafora, si tratta di impedire al procedimento naturalistico illegittime esorbitanze, e di determinare l’ufficio suo proprio in relazione a quello del diverso procedimento storiografico. In questa delicata e paziente opera di distinzione e di qualificazione abbiamo tenuto presente i progressi della metodologia della storia compiuti in Italia negli ultimi quarant’anni, poiché ci sembra che in questa materia l’Italia abbia sopravanzato le altre nazioni europee. Tanto più si richiedeva che qualcuno si assumesse l’onere di tale fatica in quanto la metodologia crociana, che ha dato frutti così copiosi in molti domini del sapere storico, non ne ha dato alcuno, fin’ora, in quello della storia delle civiltà a noi più lontane. C’è di più: se si osserva, con mente aperta al vero, il corso della storia della storiografia in questo circoscritto dominio, balza agli occhi che qui ci aggiriamo in un pallido mondo di ombre, in cui si riflette, per così dire, l’iperuranio dei grandi movi menti di pensiero della nostra civiltà negli ultimi cento anni.
Una etnologia camaleontica: l'abito filologico del "mantenersi al corrente"
Invero, quando imperava il positivismo, l’etnologia fu crassamente positivistica, e peggiorò ulteriormente il naturalismo della sua età; quando fu proclamata la bancarotta della scienza, e l’idealismo e lo storicismo ripresero lena, l’etnologia tentò di farsi storica, ma intese tanto poco il significato della storia, da scambiarla con un filologismo scialbo, privo d’ogni lievito di pensiero, ovvero, come suole accadere allorché manca il freno della ragione storica, avventato e arbitrario, e disposto a lasciar credito persino alle «verità» della fede, o addirittura a confermarle; infine, quando, di recente, sembrò che lo storicismo fosse superato, l’etnologia si aggiornò di nuovo, e confessò più apertamente il suo amore verso il metodo naturalistico, amore che, del resto, essa mai aveva sostanzialmente intermesso. E, in ciascuna di queste tre età, giammai il sapere etnologico fu mosso da reali interessi di pensiero, ma andò piuttosto raccattando dall’ambiente quel tanto che occorreva per potersi dire al corrente anche sul punto della metodologia e della filosofia. La filosofia che così entrava a far parte dell’arsenale culturale dei signori etnologi era quella che poteva essere: non si riattaccava direttamente alla grande tradizione europea, a Kant, a Hegel, a Bergson o a Croce, ma ripeteva, con untuosa compunzione la filosofia professorale e accademica, o, nel caso più favorevole, la filosofia degli epigoni (si pensi a Vaihinger, Husserl, Dilthey, etc). L’abito filologico di «mantenersi al corrente» e di seguire «l’avanzamento delle ricerche» si tramutava qui nell’accogliere la filosofia di moda, quasi che la moda avesse qualche autorità nelle cose del pensiero. Con la presente raccolta di saggi noi ci lusinghiamo di aver creato almeno le premesse affinché tale stato di cose abbia fine, di aver iniziato la radicale riforma del sapere etnologico, il riscatto di questa manomorta culturale e il suo riassorbimento nel circolo vivo del sapere non ozioso.
Filosofi ed etnologi: la necessità del doppio discorso
Confessiamo che la nostra impresa presenta notevoli difficoltà: le pagine che seguono si rivolgono a due pubblici interamente diversi, ai filosofi e ai cultori di Schriftgeschichte da una parte, agli etnologi e ai paletnologi dall’altra. I primi stenteranno a seguirci sul terreno speciale della ricerca, sebbene intenderanno molto bene l’interesse generale, e non solo etnologico, di certe questioni di metodo; i secondi, informatissimi per quel che riguarda il settore speciale della ricerca, ci seguiranno molto poco in una polemica che presuppone un minimo di orientamento e di interesse speculativo. Ai primi, o almeno ai più orientati fra essi, sembrerà che da parte nostra si dicano cose ovvie, e che le storture che si combattono sono troppo vistose per meritare l’onore di una critica in forma, minuziosa e paziente: ai secondi sfuggirà molto probabilmente il nocciolo della quistione, e apparirà invece in un rilievo quasi drammatico questo o quel difetto di informazione, questa o quella lacuna, questa o quella inesattezza. È d’uopo quindi che l’autore tenga, a chiarimento, due discorsi distinti, ciascuno rivolto a un solo tipo di lettore. Agli Schrifthistoriker e ai filosofi diremo, da parte nostra, che qui si intende promuovere, mercé l’etnologia, un allargamento della nostra autocoscienza storica, una migliore determinazione dell’essere e del dover essere della nostra civiltà; che per attuare questo compito è anzitutto necessario liberarsi dalla passività della metodologia naturalistica oggi più o meno imperante negli studi etnologici; e, infine, che, per condurre a buon punto tale opera di liberazione è necessario far proprio quei ragionamenti minuziosi e pazienti che ai più orientati possono sembrare ovvii. Certo è fatica dura spiantare la cittadella del naturalismo etnologico: tuttavia, quando anche nessun etnologo si giovasse in qualche modo dei nostri lumi, resterebbe pur sempre un lume dato a noi per proseguire l’opera nostra: il che non è poca cosa. Or cosa diremo agli etnologi e ai paletnologi? Diremo che si sforzino di rifarsi ai principi, di apprendere l’abito di porre, criticamente, la quistione «de jure» per ogni ricerca intrapresa, e, sopratutto, di riaffiatarsi con la grande speculazione europea: in ogni caso, avvertiamo fin d’ora i signori etnologi e paletnologi che le eventuali critiche ch’essi saranno per farci sui difetti di informazione, su inesattezze nei particolari, sul tal libro non citato, etc., non li dispensa affatto di venire al nocciolo dell’argomento, e di impegnar battaglia sui principi: che è quel che conta, data la natura del presente libro. E li avvertiamo anche che di questi principi non ci si sbriga in quattro parole, posto che in essi rifluisce la migliore tradizione speculativa europea, con particolare riferimento alla metodologia del Croce.
Ristabilire la circolazione del discorso tra le fitte barriere dello specialismo
Questi sono i due discorsi che rivolgiamo ai due pubblici eventuali. Or qui cade opportuna una osservazione. È un fatto strano, e che invita a pensare, l’imbarazzo nel quale si trova lo scrivente, nonché la necessità del doppio discorso. La verità è che la cultura europea è attualmente divisa in compartimenti-stagni, e fa difetto quel minimo di unità di pensiero per cui uno stesso linguaggio è sostanzialmente intelligibile ed opportuno per tutti. Le fedi si moltiplicano, i pubblici si dividono, le ignoranze reciproche si accrescono in numero ed in estensione, l’Europa si copre di una fitta rete di barriere feudali, nei cui limiti vivono regimi culturali autarchici. Non si tratta di quella «concordia discors» che è garanzia di progresso: è crisi, divisione, anchilosi, confusione delle lingue. Questo discorso ci porterebbe molto lontano, e precisamente alle scaturigini di tale perdita d’unità, al nostro Rinascimento, allorquando, cioè, la nascente civiltà moderna accusò subito uno scarso potere di espansione e di assorbimento dei relitti del passato, difetto che rimase poi, più o meno, costante sua caratteristica. Ma, per lasciare così ampio argomento, e per tornare al nostro, di tanto più modesto, certo è che i saggi che seguono, col relativo imbarazzo di chi li ha scritti, e col doppio discorso che abbiamo dovuto tenere, costituiscono una conseguenza visibile del fatto or ora denunziato. Orbene: la nostra raccolta di saggi ha la piccola ambizione di provvedere, per la parte che le spetta, a ristabilire la circolazione interrotta, e a mettere almeno in comunicazione due domini che coesistono estranei l’uno accanto all’altro: il dominio etnologico e quello della più progredita metodologia della storia. Il nostro ragionamento è abbastanza semplice: noi, per conto no tro, abbiamo adempiuto il nostro dovere meditando le concezioni metodologiche dei signori etnologi, e saggiandone il valore speculativo; chiediamo che i signori etnologi facciano altrettanto con le cose nostre, e, in ogni caso, raccolgano il guanto di sfida.
La crisi della civiltà europea e il compito dello storico
Nel discorso che abbiamo rivolto ai fìlosofi e agli Schrifthistoriker abbiamo più sopra parlato di un incremento di autocoscienza a cui dovrebbe provvedere il sapere etnologico. Si tratta di un punto molto importante. La nostra civiltà è in crisi: un mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia. Naturalmente, come accade nelle epoche di crisi, variamente si atteggiano le speranze e variamente si configura il «quid maius» che sta per nascere. Tuttavia una cosa è certa: ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le proprie responsabilità. Potrà essere lecito sbagliare nel giudizio: non giudicare, non è lecito. Potrà essere lecito agire male: non operare, non è lecito. Ciò posto, quale è il compito dello storico? Tale compito è sempre stato, ed ora più che mai deve essere, l’allargamento dell’autocoscienza per rischiarare l’azione. E l’autocoscienza storiografica si allarga non solo dichiarando gli istituti della nostra civiltà, non solo riportando alla consapevolezza il vero essere del nostro patrimonio culturale, ma altresì imparando a distinguere la nostra civiltà dalle altre, anche da quelle più lontane. La civiltà moderna ha bisogno di tutte le sue energie per superare la crisi che attraversa. Lo storico, per la parte che gli spetta nel dramma, e per il compito che gli è proprio, risponde all’appello dei tempi offrendo il suo contributo: e cioè una maggiore potenza di individuazione, preparatrice di una maggiore potenza di azione.
Il magismo dell'epoca presente e il ruolo storico del mondo primitivo
Inoltre, certe forme recentissime di prassi politico-religiosa, certe disposizioni d’animo strane, certi appelli ad esperienze ineffabili (si pensi al Gemüt che stringe in unità sentimentale il suolo e la razza, la razza e il sangue) non si spiegano abbastanza con la storia del secolo XIX, e, in generale, con la storia della civiltà nostra. Non si spiegano del tutto con tale storia la «bramosia di lontane esperienze ataviche» in un Mòser, in un Wagner o in un Bachofen, non si dichiara completamente, per una mente aperta soltanto a esperienze europee, la vibrazione di accento che molti dotti tedeschi conferiscono al prefisso ur (si veda la recente recensione dell’Omodeo ad un libro del Mòser, in Critica XXXVIII, 1940, pp. 232 sgg.). La verità è che nel compiere la nostra opera di determinazione dei fili che si dispongono nell’ordito di certe disposizioni d’animo moderne, non siamo in possesso di tutti i fili e quindi l’ordito non riesce, o almeno non riesce completamente. E il filo che manca è per l’appunto quello del cosiddetto mondo primitivo, di quel mondo che oggi più che mai dà segni di presenza, simile a tradizione quasi inaridita che rinverdisca, simile a linguaggio liturgico quasi obliato che ritorni in piena evidenza alla memoria. Come possa la ricerca etnologica storicisticamente orientata mantener fede a questi impegni, solo l’esecuzione nel fatto di una storiografia delle civiltà inferiori può mostrarlo: ma tale esecuzione non rientra nell’economia dei saggi qui raccolti, dato che essi ubbidiscono unicamente al fine di ripensare criticamente i metodi con cui si scrivono le storie etnologiche.
Gli errori del naturalismo storiografico
L’argomento offre allo Schrifthistoriker e per il metodologo anche un altro interesse generale. La presente raccolta di saggi costituisce un eccellente punto prospettico per poter abbracciare a colpo d’occhio un gran numero di possibili errori metodologici della storiografia naturalistica: la sostituzione del fiologismo alla considerazione storiografica, la surrogazione delle reali categorie storiche (arte, filosofia, religione, ethos...) con le pseudocategorie naturalistiche dello spazio del tempo e della causa, la storia universale e generale, la corruzione del cominciamento ideale ed eterno delle categorie nel cominciamento in tempo, il biologismo culturale, la superstizione del documento e la ingenua credenza della storia come un passato e come un di fuori, lo psicologismo, la risoluzione del nesso dialettico necessità-libertà nella doppia ipostasi della società e dell’individuo, etc. La Schriftgeschichte degli ultimi cento anni presenta in misura più limitata, e con evidenza minore, questa serie di errori: la storiografia etnologica permette invece di considerarli, per così dire, allo stato naturale, senza quegli avvolgimenti temperamenti o compromessi che nella Schriftgeschichte li rendono meno evidenti, più faticosamente isolabili, e, infine, didatticamente meno efficaci. Insomma, per esemplare gli errori metodologici del naturalismo storiografico, la etnologia rappresenta un eccellente punto prospettico.
Allargamento della metodologia crociana a nuove esperienze storiche
Infine, invitiamo gli Schrifthistoriker e i metodologi della storia a riflettere sul fatto che la metodologia crociana, nata da una vivacissima esperienza della storia, raccomanda la sua vitalità e il suo incremento al continuo commercio con nuovi problemi storici. Or è accaduto che la filosofia dello spirito si è imbattuta spesso in troppo accademici censori o fautori, i quali han preso ad esaminare il delicato suo congegno da metafisici più che da filosofi, senza cioè continuarla in una nuova più ampia e vibrante esperienza della storia. E sia che questi metafisici presumessero di avere scoperto il difetto del sistema, sia che lo stimassero perfetto in ogni sua parte, certo è che rifiuti o correzioni o adesioni tradivano un difetto sostanziale, erano cioè elucubrazioni a freddo. Da parte nostra stimiamo che sia preferibile sottoporre il sistema alla prova di nuove esperienze storiche, affinché da queste, e solo da queste, tragga il nutrimento che lo farà crescere e fruttificare. Come l’incremento della vita morale ha luogo solo quando i casi della vita ci pongono di fronte a nuove decisioni concrete, in cui il carattere è chiamato volta a volta a esprimersi, e giammai quando escogitiamo precettistiche o casistiche sul possibile che non è reale, così, mutatis mutandis, l’incremento di una metodologia della storia è affidato alla possibilità di provarla interiormente nella intelligenza di mondi storici nuovi, in cui la sua efficacia non è stata ancora cimentata. Una etnologia storicistica rappresenta per l’appunto un cimento sconosciuto per la metodologia crociana: di qui un interesse generale nella cosa.
Struttura e argomenti del volume
Giova ora qualche chiarimento su alcuni criteri particolari che ci hanno condotto nella elaborazione dei saggi in quistione. In generale, alla esposizione in estensione abbiamo preferita quella per punti prospettici: per esempio, ad un esame completo della etnologia evoluzionistica abbiamo preferito un saggio critico intorno ad uno solo fra i più noti rappresentanti dell’indirizzo, L. Lévy-Bruhl. L’argomento offre infatti un eccellente punto prospettico per valutare, in uno, l’evoluzionismo, il sociologismo, il filologismo mistico-romantico, e, infine, il problema della mentalità primitiva. Inoltre, ad un esame diffuso di tutti gli scritti metodologici della scuola storico-culturale abbiamo preferito soffermarci sulla prefazione-programma del Foy, completandola con le elucubrazioni filosofiche di H. Pinard de la Boullaye, e con le regole tecniche esposte nell'Handbuch der Methode der kulturhistorischen Ethnologie dello Schmidt. Ancora: ad un esame completo di tutti i mal posti problemi della etnologia, abbiamo preferito la trattazione particolare di uno solo di questi, il problema della prima forma di religione nella etnologia religiosa. Infine, valgono per l’etnologia funzionale considerazioni analoghe. La raccolta offre pertanto, sia pure di scorcio, un contributo alla storia della storiografia europea nella seconda metà del secolo decimonono e nei primi quarant’anni del ventesimo. Tale contributo è tanto più necessario in quanto nelle storie della storiografia europea manca una sezione che riguardi l’etnologia. Si veda, per esempio, la classica Geschichte der neueren Historiografie del Fueter (München u. Berlin, 1911), dove gli accenni all’etnologia moderna sono vaghi scarsi e imprecisi, e viziati, fra l’altro, dal pregiudizio metodologico della storia universale (più vivaci e penetranti, invece, gli accenni ai primi albori del sapere etnologico, sopratutto durante l’epoca delle scoperte). Ad ogni modo, non tutto ciò che d’importante si poteva dire sul conflitto fra considerazione naturalistica e storicistica nel dominio etnologico ha trovato posto nei saggi raccolti nel presente volumetto: manca, per esempio, la determinazione particolareggiata dei rapporti fra etnologia e antropologia, un argomento che ha sapore di attualità. Ma le integrazioni sono facili per il lettore orientato: altre noi stessi faremo in seguito.
Suggerimenti di lettura
- Croce, Benedetto [1938] (1966) La storia come pensiero e come azione. Bari: Laterza.
- De Martino, Ernesto [1941] (1997) Naturalismo e storicismo nell'etnologia. Introduzione e cura di Stefano De Matteis. Lecce: Argo.
- [1948] (1998) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Introduzione di Cesare Cases. Torino: Bollati Boringhieri.
- [1958] (2000) Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria. Introduzione di Clara Gallini. Torino: Bollati Boringhieri.
- Gehlen, Arnold [1956] (1994) Le origini dell'uomo e la tarda cultura. Trad. di Elisa Tetamo. Milano: Il Saggiatore.
- Lévy-Bruhl, Lucien [1927] (2007) La mentalità primitiva. Trad. di Carlo Cignetti. Torino: Bollati Boringhieri.
- [1949] (1952) I quaderni. Trad. di Anna Macchioro de Martino. Torino: Einaudi.
- Mazze, Marco (2009) Contraddizione e melanconia. Saggio sull'ambivalenza. Macerata: Quodlibet.
- Paci, Enzo [1950] Il nulla e il problema dell'uomo. In Ernesto de Martino [1948] (1998) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Introduzione di Cesare Cases. Torino: Bollati Boringhieri, pp. 254-262.
Pubblicato Thursday 9 November 2017
Modificato Thursday 2 January 2020